Questo pezzo e’ in italiano. L’ho scritto dopo un viaggio in macchina con Ebaa sulla strada del mare. C’era un cessate il fuoco quel giorno a Gaza…
Questo pezzo e’ stato pubblicato su Vanity Fair Italia.
I bombardamenti nell’area del porto sono cominciati intorno a mezzanotte. La relativa calma a Gaza City nel giorno di Eid Al Fitr, la festa per la fine del Ramadan, è durata poche ore.
Nel pomeriggio era arrivata la notizia di 5 soldati israeliani uccisi da miliziani palestinesi. Poi l’attacco a un parco giochi vicino alla spiaggia, 4 bambini palestinesi morti e 40 persone ferite. E ancora i 7 corpi recuperati dalle macerie di Khouza’a, nella zona cuscinetto del fronte a sud, in cui nemmeno nel giorno del cessate il fuoco si era riusciti ad entrare.
Poi l’avviso dell’esercito Israeliano agli abitanti delle zone a est di Gaza City di evacuare Shujayea, East Jabalia e Zeituna. Questi sono quartieri in cui gli sfollati di aree ancora più ad est e più prossime al fronte avevano trovato rifugio nei giorni scorsi. Ora niente li protegge più nemmeno lì.
A Gaza siamo a 1130 morti, di cui circa il 76% civili, 6600 feriti, 7447 strutture e case distrutte e quasi 160000 sfollati (statistiche da Al Watan Voice e UN Office for the Coordination of Humanitarian Affiaris – OCHA). In Israele i numeri parlano di 3 civili e 53 soldati deceduti (Haaretz.com).
La guerra mediatica, i dubbi su chi ha lanciato cosa, quando e dove, sottolienano l’inutilità di tutta questa distruzione. E nel vuoto lasciato dalla politica e dalla diplomazia, nella notte c’è spazio per altri bombardamenti, per i razzi israeliani che illuminano il cielo di Gaza a giorno e che mi riportano a pensare all’opposto di questo chaos: alla calma del cessate il fuoco di tre giorni fa.
Sabato ero con Ebaa sulla strada del mare – sha’ar al bahr. Un piacere proibito. Dall’inizio della guerra la prende solo chi proprio non ha altra scelta. Ci si sente esposti, osservati, quasi degli obiettivi per missili Israeliani che sembrano colpire un po’ a caso.
Ma Sabato c’era un cessate il fuoco che ha tenuto, almeno fino alle 8 di sera. E così la strada del mare l’abbiamo presa per andare a Deir Al Balah a vedere le serre bombardate vicino a casa di un’amica. Un missile israeliano ha lasciato un cratere di 20 metri di diametro a 30 metri da casa sua. La terra, arida e friable è volata fino su sul tetto spaccando i pannelli solari e una cisterna d’acqua. Di sotto le sue 2 macchine sono rimaste senza finestrini.
La strada del mare forse ci avrebbe fatto scordare la destinazione per un po’. Il sole era ancora alto alle 6 di pomeriggio e ci bruciava la faccia ma volevamo i finestrini giù. C’era il mare da guardare a destra. Un mare in cui quasi nessuno ha osato mettere i piedi dal 18 Luglio, quando 4 ragazzini che giocavano a pallone sulla spiaggia a Gaza City furono ridotti in frantumi da due missili israeliani.
Con il cessate il fuoco un sacco di gente si è riversata in strada e alla gente si univa una frenesia mista a una nostalgia insaziabile di ciò che è venuto a mancare in questi ultimi 20 giorni di guerra. Il senso di libertà che offre sha’ar al bahr era una di queste cose.
Guardando quella distesa blu con la mano fuori dal finestrino a tagliare il vento, Ebaa raccontava che quella strada non la faceva da tempo. Cresciuta a Gaza, a ventiquattro anni aveva visto 4 guerre. Dall’ultima, Piombo Fuso del 2008, diceva che il sinistro, costante ronzio dei droni israeliani si era aggiunto ai rumori di Gaza e si sentiva sempre sotto mira, soprattutto sulla strada del mare.
Questo cessate il fuoco le dava un po’ di sicurezza. E il viaggio l’ha riportata a ricordi lontani. Parlava di momenti felici, giornate spensierate, gite di anni addietro quando con i fratelli si svegliava presto la mattina per andare a Deir Al Balah a trovare la nonna. Sapeva allora che a un certo punto la nonna sarebbe andata in camera da letto e dall’armadio avrebbe preso una scatola di cioccolatini da distribuire ai nipotini. Lo faceva sempre.
Durante il nostro viaggio, Ahmed, il tassista, aveva la radio accesa e ne usciva la voce di Julia Boutrous con la sua Respiro libertà. Una colonna sonora che meglio descrivesse il rapporto tra Israele e Palestina, i 47 anni di occupazione e quest’ultima guerra, Margine Protettivo, non si sarebbe potuta trovare.
La musica esplodeva dalla macchina ma dal sedile posteriore Ebaa chiedeva di alzare la radio. Ahmed cercava di girarsi per dirle che la musica era già alta ma Ebaa aveva gli occhi pieni di lacrime. Ahmed le diceva «Non piangere, che c’e’?», le passava i fazzoletti ma sapeva che c’era e che i fazzoletti non sarebbero bastati e allora alzava la radio.
Julia cantava Respiro libertà (…) quello che è successo fino ad ora è abbastanza e faceva scendere le lacrime a fiumi. Ahmed mi guardava e diceva «Ebaa è triste» e poi cercava di guardare avanti. Ed Ebaa era triste, venti giorni di guerra raffioravano ma c’erano i suoi ventiquattro anni di vita vissuta sotto occupazione a incontrarli.
C’è poco spazio a Gaza per contenere questa tristezza che fa male. Per contenere un complicato passato che pesa come un macigno sul futuro. Per contenere le migliaia di morti, le persone che vengono portate a pezzi in ospedale o che muiono tra le macerie.
Non c’è più spazio tra la gente, nelle viuzze dei campi rifugiati, negli obitori, negli ospedali, nelle teste delle ventenni che come Ebaa non vogliono niente di speciale. Vogliono vivere su un pezzo di terra che non gli venga tolto da sotto i piedi. Vogliono starsene al finestrino con il sole in faccia e il vento tra i capelli a ricordare un passato che non sia già stato cancellato e a pensare a un futuro che non faccia sempre piangere. Vogliono andare a Deir Al Balah sulla strada del mare.